Da un progetto nato dalla mente di Pietro Germi, scomparso poco prima dell’inizio delle riprese, Amici Miei resta uno dei manifesti principali del cinema italiano del dopoguerra. Il film di Monicelli è un messaggio malinconico nei confronti degli ex quarantenni che hanno goduto del boom economico e qualsiasi dolce vita e che si ritrovano ad affrontare una vita fatta di scherzi e risate che celano le difficoltà di una chiara precarietà. Nel cast Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi, Gastone Moschin e Duilio Del Prete, accompagnati da Bernard Blier, Milena Vukotic e Olga Karlatos. Il film del regista romano uscì nei cinema il 24 ottobre del ’75 ed ebbe due seguiti e un prequel: splendido il secondo atto, mediocre il terzo, pessimo il prequel (girato molti anni dopo e con nessun volto del cast del primo film).
Cinque inseparabili amici fiorentini sulla cinquantina affrontano i loro disagi sfogandosi con scherzi a danno di malcapitati. Il conte Raffaello Mascetti è un nobile decaduto costretto a vivere dapprima ospite degli amici, poi in uno scantinato. Rambaldo Melandri è un anonimo architetto alla perenne ricerca di una donna, per la quale sarebbe anche disposto ad abbandonare i suoi amici, salvo ravvedersi all’ultimo momento. Giorgio Perozzi è un redattore capo di cronaca che cerca di sfuggire la disapprovazione per la sua poca serietà e per le sue avventure extraconiugali da parte del figlio e della ex moglie. Guido Necchi gestisce con la moglie Carmen un bar con sala da biliardo, luogo d’incontro del gruppo d’amici. Ai quattro amici di sempre si aggiunge il professor dottor Alfeo Sassaroli, brillante primario ospedaliero annoiato dalla professione e capo di una clinica in collina, che diventa in breve tempo uno dei pilastri del gruppo. Il redattore Perozzi esce dal lavoro all’alba, senza la minima intenzione di tornare a casa a dormire, con l’idea di voler scappare via con i suoi migliori amici in occasione di una giornata che non ci sarebbe mai più stata: con loro ha intenzione di partire su due piedi per una delle loro “zingarate”, ossia una fuga dalle loro grigie realtà per stare in compagnia a scherzare. Così passa a prendere gli altri per partire tutti insieme. Il Perozzi stesso racconta qualcosa di sé: è separato dalla moglie, stufa dei suoi lazzi, e ha un brutto rapporto con il figlio Luciano, che, al contrario del padre, è serioso e distaccato. Il Sassaroli entra nel gruppo quando gli altri quattro finiscono ricoverati nella sua clinica in collina, feriti dopo una delle loro zingarate. I quattro amici trasformano la loro degenza in un periodo di caos nella clinica e il primario Sassaroli si dimostra immediatamente degno del loro stile, vendicandosi con cure fastidiose e dolorose. Offuscato dal dolore, il Melandri trova la sua anima gemella in Donatella, che scopre essere la moglie del primario Sassaroli, il quale non esita a cedergliela, accompagnata però dalle due figlie, dall’esigente cane Birillo e dalla governante tedesca. I due uomini si accordano perché il Sassaroli venga a visitare moglie e figlie di quando in quando. Dopo un lungo periodo di assenza dagli amici, il Melandri confessa loro di non avere buoni rapporti con il Sassaroli, il quale non perde occasione per criticare i bassi standard familiari dell’architetto. I tre vengono invitati ad una cena, alla quale ne approfittano per vendicarsi della fuga del Melandri e, finalmente, convincerlo a lasciare Donatella. Per sfogarsi vanno tutti e cinque alla stazione di Santa Maria Novella a fare la zingarata degli schiaffi ai passeggeri sul treno in partenza. Dopo questo episodio, il Sassaroli entra stabilmente nel gruppo. In un’altra famosa zingarata, i cinque si fingono architetti e geometri inviati a prendere le misurazioni in un paesello che deve essere abbattuto per la costruzione di un’autostrada, lasciando la popolazione nel panico. Il Conte Mascetti ha effettivamente origini nobili, ma ha scialacquato le ricchezze sue e della moglie Alice. L’uomo è costretto a vivere di vendita di enciclopedie e ha mandato moglie e figlia a vivere lontano, sulle spalle di un conoscente, e viene ospitato dagli amici. È un uomo orgoglioso delle sue origini nobili, che accetta sempre i favori ma mai la carità, e solo i suoi amici sanno come trattare questa differenza. Il Mascetti ha da tempo una relazione con Titti, giovane studentessa figlia di un colonnello in pensione, della quale è pazzo di gelosia, poiché spesso si rende irrintracciabile: lui la scoprirà infine a letto con un’altra donna. Il Necchi viene presentato come un uomo estremamente brillante nell’inventare scherzi, come quando il gruppo si autoinvita ad una festa in villa senza conoscere il padrone di casa e il Necchi stesso defeca nel vasino di un bambino spaventando la governante, venuta in un secondo momento a controllare. È proprio del Necchi l’ideazione dello scherzo più elaborato del gruppo: dopo che il barista ha identificato un anziano pensionato cliente del suo bar, il signor Righi, il gruppo finge di essere una banda di spacciatori in lotta con il clan rivale dei marsigliesi, che ha bisogno di un basista.
Il Righi viene sballottato per la provincia, incappucciato e spaventato, con la promessa di guadagnare facilmente milioni di lire, che mai arrivano. Ad intervenire è infine Carmen, la moglie del Necchi, che minaccia di spifferare tutto al Righi nel caso il marito non la smettesse di assentarsi continuamente dal lavoro. I cinque si mettono all’opera per la conclusione: l’incontro decisivo con i marsigliesi in un cantiere abbandonato, in cui il Sassaroli finge di venire ammazzato, e dopo lo scontro viene ordinato al Righi di allontanarsi, venendo spedito a Reggio Calabria. Terminata la giornata…
Ideato prendendo spunto da fatti realmente accaduti a Castiglioncello (Livorno) in cui cinque ragazzi facevano degli scherzi in giro per la provincia, Monicelli consegna al cinema italiano il nuovo modello di commedia comico-tragica, grazie al quintetto fenomenale (con Ugo Tognazzi porta bandiera) e ad una godibilissima sceneggiatura che impasta la bocca con prelibatezze zuccherine fino all’improvviso finale amaro, che smorza tutte le risate inducendo alla riflessione. Il gruppo di amici, che ha l’obiettivo di stravolgere l’amata e quotidiana routine, sfida il tempo e la malinconia di tempi andati con bricconate goliardiche ma che mascherano un patetismo. Monicelli, che con Steno e il suo Febbre da cavallo (1976), chiude quasi definitivamente il filone della commedia all’italiana degli anni 60 e 70, sfiorando quella perfezione che era mancata per certi versi con il comunque ottimo L’Armata Brancaleone (1966): Amici miei appare come un’interfaccia rinnovata de I soliti ignoti (1958), dove resta forte il concetto di gruppo maschile che, dal più buffo al più abile, ha sempre con il piano B in tasca per sfuggire alla punizione, gogna o galera che sia. Il finale tanto caro a Germi e su misura per il regista è un primo assaggio di quel meraviglioso affresco romano rappresentato da Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo (1977) o è solo un cinico ultimo scherzo?
“Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.” Il Perozzi
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