Liberamente ispirato ad un cortometraggio di Chris Marker chiamato La Jetée del lontano 1962, il sesto film di Terry Gilliam, già autore degli stravaganti Brazil (1985) e de La leggenda del re pescatore (1991), è considerato come uno dei migliori lavori del regista statunitense naturalizzato britannico. Mai posato e schizofrenico, un po’ come i suoi protagonisti, 12 monkeys rappresenta uno dei contesti post-apocalittici più visionari degli anni ’90.
Nel cast troviamo un ottimo Bruce Willis, assai lontano dal personaggio di John McClane, la bellissima Madeline Stowe, un immenso Brad Pitt (qui candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista), Christopher Plummer, David Morse, Frank Gorshin e un Lisa Gay Hamilton.
Oltre ad aver incassato ben 170 milioni dollari contro una spesa di 30 milioni, ha ricevuto ottimi consensi da parte di pubblico e critica e numerosi riconoscimenti, tra cui: due nomination agli Oscar (una per Pitt, l’altra ai migliori costumi); Golden Globe per Brad Pitt; 3 Saturn Award e la nomination come Miglior Film al Festival di Berlino.
Recentemente il canale televisivo Syfy ha trasmesso una serie televisiva basata sulla stessa storia: ad oggi è possibile guardarla sulla piattaforma Netflix.
Nel 2035 James Cole è un detenuto che, con la promessa della grazia, viene inviato nel passato per indagare sui fatti che hanno portato all’estinzione del 99% dell’umanità e costretto i sopravvissuti a vivere nel sottosuolo per sfuggire al contagio di un virus letale. I detenuti sono obbligati a salire in superficie con speciali tute ermetiche, correndo il rischio di venire contagiati a loro volta, per raccogliere le prove riguardo alla responsabilità di una tale catastrofe. I capi di queste comunità sotterranee sembrano essere degli scienziati che fanno di tutto per poter, un giorno, mettere le mani sul virus originale, che intanto è mutato, per creare un antidoto e riconquistare la superficie. Tutte le prove portano a un sedicente gruppo ecologista, l’esercito delle 12 scimmie, che avrebbe diffuso il contagio per liberare la Terra da quel cancro che ritengono siano gli esseri umani. In particolare, un murale apparso pochi giorni prima della tragedia porta la scritta “siamo stati noi” (“we did it”). Al suo arrivo nel 1990 (sarebbe dovuto giungere nel 1996 ma c’è stato un malfunzionamento nella macchina del tempo), Cole viene arrestato e detenuto in una clinica psichiatrica, dove incontra Jeffrey Goines, anch’egli detenuto, e la dottoressa Kathryn Railly, un’esperta di malattie mentali caratterizzate da presunte capacità profetiche. Railly inizialmente ritiene Cole malato, ma in seguito inizia a prenderlo sul serio. Goines e Cole stringono una strana amicizia, e quest’ultimo, a causa degli psicofarmaci che gli venivano somministrati, rivela a Goines la sua storia. Goines non crede alle affermazioni di Cole, ma rimane colpito dalle sue parole circa la distruzione della maggior parte dell’umanità. Imbottito costantemente di farmaci tranquillanti l’unica speranza di tornare nel suo tempo è quella almeno di poter fuggire dall’ospedale. Dopo un tentativo di fuga mal riuscito
Cole viene pesantemente sedato e chiuso in una stanza d’isolamento. Quando i dottori vanno a parlagli, però, trovano la stanza semplicemente vuota.
Cole sembra scomparire nel nulla, ma è stato in realtà riportato nel futuro. Dopo un altro errore (viene catapultato al tempo della prima guerra mondiale e qui trova un suo compagno anche lui inviato per sbaglio in quell’epoca), è finalmente inviato nel 1996 pochi mesi prima dell’inizio del contagio. Qui rapisce la dottoressa Railly, la quale, dopo gli iniziali momenti di terrore, inizia a collaborare con lui…
Con il suo indimenticabile tango introduttivo, appassionato e svitato allo stesso tempo, il film di Gilliam detta sin dai primissimi minuti le regole allo spettatore: non è un film facile da digerire, soprattutto per il connubio di note acide e di riprese oblique, contornate dall’amata lente di Fresnel che Gilliam già utilizzò in Brasil (1985) e che ripeterà in Paura e delirio a Las Vegas (1998). Con un’intelligente messa a punto della scenografia, Gilliam assieme a Jeffrey Beecroft e William Ladd Skinner, costruiscono un futuro tetro e malridotto, tale da far apparire tutto disordinato e claustrofobico. L’effetto delle droghe calmanti su un già rimbambito Bruce Willis (splendida vittima di un mondo che lo assale e lo annienta mentalmente) non fanno altro che generare senso di nausea e l’occhio di Gilliam svicola in obliquo talmente tanto da provocarci un’emicrania.
Poi c’è un Brad Pitt d’annata, capace di sotterrare tutto il suo fascino e di trasformarsi in un folle schizzato senza speranza, direttore di un’orchestra tutta sua; rilevante ma inferiore ai due protagonisti l’interpretazione della Stowe. In questa storia si sviluppa anche la breve storia d’amore tra Cole e la Railly, tuttavia le condizioni mentali ed emozionali del fuggiasco non permettono che il flirt si possa concretizzare: questo è un altro bersaglio colpito. La situazione che Cole vive è talmente confusa e distorta, che le sue emozioni sfiorano l’istinto primordiale (l’autodifesa, l’atteggiamento quasi fanciullesco nel sentire canzoni storiche, il giuggiolarsi in una pozza d’acqua, ecc…). Si chiama Punta del Este il dolce tango diretto dal britannico Paul Buckmaster, sonorità diverse e confuse, perfette per un parco giochi apocalittico come questo. Resta da citare la malata fotografia di Roger Pratt, la quale assieme alle melodie agrodolci dello score si mostra più come un effetto collaterale di un farmaco somministrato di nascosto. L’esercito delle 12 scimmie è un viaggio di due ore e passa che vale la pena di intraprendere più spesso di quanto si pensi, un film abbastanza folle da farci dimenticare anche i problemi che viviamo ogni giorno in questo mondo reale.
★★★★☆
Una risposta a "L’esercito delle 12 scimmie (1995)"