Sin dal 1974, anno in cui venne pubblicato il primo storico romanzo, Stephen King ha raramente potuto vedere adattamenti cinematografici (o televisivi) degni di nota. Fanno eccezione in modo certo Shining (1980), Carrie lo sguardo di Satana (1976), Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999); il discorso si può estendere anche a La metà oscura (1992) e La zona morta (1983) tuttavia non capolavori assodati. Il motivo delle difficoltà che le produzioni hanno riscontrato spesso è dovuto soprattutto al fatto che se si riesce a narrare la singola storia – e spesso non così bene – non si può dire lo stesso per ciò che ruota attorno all’universo kinghiano, una mitologia che ha da sempre posto le basi sulla cattiveria dell’essere umano, specialmente quella cattiveria delle piccole comunità dove si nascondono segreti di Pulcinella e dove l’invidia cresce come l’erbaccia di tutti i giardini. Sebbene romanzi e sceneggiature siano passati tra le mani di firme prestigiose come Stanley Kubrick, Brian De Palma, David Cronenberg, George A. Romero e John Carpenter, gli adattamenti dei romanzi hanno fatto sempre fatica a trovare spazio (inteso come tempo) sufficiente per estendere in modo corretto i propri confini, raccontando storie parallele o citando avvenimenti passati di altre storie del maestro del brivido. La questione è racchiusa tutta in un concetto solo: è facile adattare un romanzo di Stephen King, è assai difficile mostrarne l’anima. Basti pensare a Kubrick e al suo indimenticabile capolavoro, va fatto notare come a King il film non sia piaciuto e questo dice molte cose.
King non racconta solo una storia dove avvengono fatti straordinari o di entità paranormale, King racconta quasi sempre una società malata che pianta il seme del peccato da cui nascono delitti orribili o fatti deprecabili, IT ne è un chiaro esempio: un essere mostruoso che vive nelle fogne della città che si presenta come un clown sorridente e colorato, ma sappiamo bene che i clown sono personaggi dalle due facce, che hanno un sorriso disegnato sul volto triste, che trasformano le piccole tristezze quotidiane in fatti comici, tendono sempre a nascondere dietro il loro aspetto goffo la cruda realtà e Pennywise è il marcio che si è accumulato. King non manca mai nel raccontare questa sfaccettatura, poi prende una tangente narrativa, che può essere un cane rabbioso, un uomo capace di vedere il futuro o il racconto di un’astronave aliena sepolta da anni sotto le case di una tranquilla comunità.
È un’introduzione necessaria per comprendere la genesi di Castle Rock, la serie targata Hulu in onda dal 2018 ideata da Sam Shaw e Dustin Thomason, prodotta da J.J. Abrams e dallo stesso Stephen King.
La serie è uno sforzo coraggioso della piattaforma statunitense che permette allo spettatore di entrare (o se si preferisce tornare) in un mondo che conosce bene solo se è appassionato di lettura, non se si tratta del contrario. Dopo tanti anni quindi, l’universo di King trova tempo e spazio per mostrarsi a 360 gradi, con due (per ora) maxi storie tutte nuove e con numerosi rimandi ed easter eggs ad avvenimenti e personaggi che abbiamo imparato a conoscere.
La stagione 1 (2018) è un solidale incontro fra King e tre enormi suoi fan, Abrams, Shaw e Thomason: il ritorno nella cara e vecchia Castle Rock ha il sapore della Twin Peaks di Lynch con sprazzi di Lost, Fargo e Penny Dreadful ma mantiene un aspetto tutto suo, cattivo, cupo e desolante, dove a spaventare sembra più la malinconica fotografia di Richard Rutkowski che le scene di violenza efferata o il buio che incombe.
Tutto ruota attorno al lucido avvocato Henry Deaver (Andrè Holland) il quale lavora in Texas.
Quando però nel carcere di Shawshank, a seguito della morte suicida del direttore Dale Lacy (Terry O’Quinn), viene rinvenuto un ragazzo (Bill Skarsgard) imprigionato in un’ala abbandonata della prigione, Deaver è costretto a tornare a casa perchè il ragazzo, praticamente muto, ha fatto solo il suo nome. Inizia quindi una corposa indagine da parte del giovane avvocato su quale sia l’identità del prigioniero segreto, ma si ritroverà contemporaneamente ad affrontare una madre malata (Sissy Spacek) di Alzheimer ormai felicemente convivente con l’ex sceriffo Alan Pangborn (Scott Glenn), dopo la morte del marito avvenuta 27 anni prima (un numero non a caso), un tragico evento concomitante con la temporanea scomparsa dell’allora piccolo Henry nei boschi.
L’arma vincente di questa stagione è una maniacale messa in scena con tempi diluiti alla perfezione, tempi che si muovono come la penna di King, andando a dipingere accuratamente i contorni per poi focalizzare l’attenzione sulla storia principale per suonare l’overture finale con numerosi colpi di scena e l’atteso finale aperto che sa di quel dolce-amaro che abbiamo imparato a conoscere nel tempo. C’è il tempo quindi per conoscere, capire, amare e/o odiare i personaggi, c’è il tempo per passeggiare per le vie di Castle Rock, tempo per decretare chi sia da condannare e chi non lo sia, tempo per aumentare i nostri dubbi.
Castle Rock fa un enorme giro di dieci episodi della durata di un’ora circa per tornare quasi al principio, definendo finalmente il volto di un male eterno (?), delineando le imperfezioni di una società impura ma che tenta di redimersi e che sfida il destino avverso. La lente d’ingrandimento si muove, tralascia ogni tanto la strada principale per dirigersi dove mai era andata fin’ora e dona, finalmente, tempo alla fragilità umana e allo spettro della moralità, tema tanto caro allo scrittore. E tutto questo lo fa senza annoiare, restando graffiante con una certa continuità, sebbe ogni tanto si avverta un certo peso nella complessità dell’intreccio e conseguentemente ci si perda un pò.
Castle Rock si comporta come un elogio definitivo, un regalo tanto atteso dal Maestro, brilla di luce propria e non si permette di emulare opere del passato: da tanto spazio ai suoi attori dove va fatto un plauso a due veterani come Sissy Spacek e Scott Glenn, ma in cui è tutto il cast a prendersi giudizi positivi.
La stagione 2 (2019) è letteralmente un cambio di libro una volta terminato il precedente. Stessi luoghi, stesso scrittore, diversi personaggi. Da un punto imprecisato degli Stati Uniti arriva Annie Wilkes (Lizzie Kaplan) assieme a sua figlia Joy (Eslie Fisher) approdare a Jerusalem’s Lot, altra cittadina teatro di tanti avvenimenti nell’antologia kinghiana e che qui trova una collocazione stradale precisa, con cartelli che indicano direzione e miglia per le altre città fittizie create dallo scrittore.
Annie e sua figlia Joy fuggono dal loro passato, alla ricerca di un posto felice (la più oscura utopia), arrivando e lasciando dopo poco qualsiasi cittadina della nazione, fino a che il destino non le tratterrà più del dovuto a Lot appunto. Il male supremo, multiforme, trova riparo nella vecchia magione dei Mardsen, luogo conosciuto dai lettori di King e somma sede di questa terrificante storia, la quale ruota solo marginalmente intorno alla figura della famosa infermiera di Misery, ma che estende i propri confini andando a ripescare due storici personaggi come Reggie “Pop” Merrill (Tim Robbins) e suo figlio John detto “Ace” (Paul Sparks).
Il male multiforme, solo assopito, i risveglia negli stessi luoghi della prima stagione, in modo diverso e con tempi differenti ma deciso ad esplodere ancora una volta, portando via con se persone buone ma macchiate dal peccato o persone malvagie che tentano di cambiare. Le comunità di Castle Rock e Jerusalem’s Lot sapranno porre rimedio al risveglio del male ma a caro prezzo e anche chi riuscirà ad abbandonare la contea, pagherà dazio.
Sebbene sia più ricca d’azione e con un piglio più gore, Castle Rock 2 pone sul tavolo vari tasselli che si ricompongono puntata dopo puntata dando un senso ad un disegno che oltrepassa la narrativa della singola stagione e va ad unirsi alla storia precedente, riuscendo quindi a definire un percorso, una cosa mai riuscita negli adattamenti cinematografici di King.
Micidiale la puntata finale, episodio in cui una volta terminata la lunga parentesi a Salem’s Lot, il viaggio di Annie e Joy riprende verso un drammatico epilogo condito con un atteso incontro oltre i confini del Canada.
Castle Rock, oltre a meritarsi di diritto una futura slot nel grande recipiente nostalgico, riaccende l’entusiasmo del lettore nei confronti delle opere del Maestro del brivido e consegna una volte per tutte un dovuto elogio ad un’antologia che chiedeva solamente molta cura e tempi di dilatazione lunghi, esattamente come vale per la lettura di qualsiasi libro dello scrittore.